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Prospettive della Cina post-Covid

In Cina l’economia ha ripreso a correre, ancor prima e ad un passo decisamente più sostenuto di quanto ci si aspettasse.

A seguito del primo lockdown al mondo in risposta all’epidemia di Covid-19, la produzione cinese si è contratta tra gennaio e marzo 2020 del +6,8% su base annua, segnando l'unico trimestre negativo in oltre 40 anni. Tuttavia, la maggior parte delle attività economiche ha iniziato a mostrare segni di ripresa già da aprile, grazie alla buona riuscita delle misure di contenimento e delle politiche di sostegno che sono riuscite a far rimbalzare l’economia lungo una traiettoria a “V”. Secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, la Cina è l’unica tra le maggiori economie mondiali a registrare un Pil in crescita alla fine del 2020 (+1,9% per il 2020, mentre per il prossimo anno è prevista un'accelerazione del +8,2%) mentre Europa e Stati Uniti arrancano, intralciati da soglie di contagi sempre più preoccupanti.

Non è, quello sul Pil, l'unico segnale di forza dell'economia asiatica. Altri indizi arrivano infatti dalla conferma della forte ripresa della produzione industriale, con un balzo a settembre che ha visto un +6,9% su base annua, superando le stime degli analisti ed il +5,6% messo a segno ad agosto. Il dato diffuso dall'Ufficio Nazionale di Statistica rappresenta il sesto incremento mensile consecutivo di crescita e permette all'economia cinese di riportare in positvo, alla fine del terzo trimestre, l'andamento della produzione industriale dall'inizio del 2020: il +1,2% dei primi nove mesi “cancella” il -1,3% di fine giugno. Nei primi nove mesi il manifatturiero hi-tech e quello dei macchinari sono cresciuti rispettivamente del + 5,9 e 4,7%.

Incoraggianti anche i dati dei consumi interni: dopo il crollo superiore al 20% di gennaio, le vendite al dettaglio sono cresciute del 3,3% a settembre, superando le aspettative di un +1,8%, e registrando segno positivo per il secondo mese consecutivo, dopo il +0,5% di agosto scorso.

L’Economist Intelligence Unit prevede che il consumo interno crescerà ad un ritmo del 5.5% annuo per i prossimi 15 anni, portando l’economia dei consumi domestici cinesi a superare quella europea entro il 2030. Da un lato assisteremo ad una contrazione sensibile della fetta della popolazione a basso reddito, che passerà dal 36,9% del 2015 all’11% del 2030; dall’altro lato, cresceranno i “big spender” cinesi che oggi contano per il 2,6% e che nel 2030 potrebbero rappresentare il 14.5% della popolazione. È possibile quindi prevedere che la richiesta di prodotti premium che si allontanino dai beni di stretta necessità aumenterà in tutto il Paese.

D’altronde, è proprio sui consumi interni che la Cina intendere spingere l’acceleratore e gettare le basi per la sua crescita futura. Il modello “export oriented” su cui il Paese del Dragone ha costruito la sua ricchezza tra i primi anni ‘80 e i primi anni 2000, infatti, aveva già cominciato a mostrare il fianco durante la grande crisi del 2008, stringendo il Paese in una morsa del debito via via sempre più insostenibile: si valuta che esso abbia raggiunto nei primi mesi del 2020 il 320% circa del Pil. Inoltre, l’invecchiamento della società, l’aumento del protezionismo, lo scontro tecnologico con gli Stati Uniti e la crisi del Covid-19 hanno velocizzato la transizione verso un modello di sviluppo economico mirato all’indipendenza economica, o quantomeno alla riduzione dell’interdipendenza dai mercati internazionali, ed in particolare da quello statunitense.

Il tema centrale del 14° Piano quinquennale, approvato all’inizio di novembre, che detterà le linee guida dello sviluppo economico cinese nel periodo 2021 – 2025, è infatti la cosiddetta “strategia di doppia circolazione” che promuove un ruolo più forte della domanda interna nel guidare la crescita e, allo stesso tempo, non chiude la porta agli scambi internazionali ma intende attrarre investimenti e tecnologia dall’estero. Questa strategia consisterebbe nell’innescare un circolo virtuoso in cui viene stimolata la domanda di un mercato interno potenzialmente immenso per sostenere l’economia del Paese, alzando il livello di reddito medio e il tasso di urbanizzazione, promuovendo lo sviluppo nelle aree continentali e riducendo la dipendenza dalla domanda estera e la vulnerabilità agli shock esterni.

Ciò implica la riduzione del tasso di risparmio ancora elevato e l’accelerazione della crescita della produttività.
Quest’ultima richiede però un’intensificazione del recupero tecnologico con l’obiettivo di raggiungere un’indipendenza, si potrebbe dire un'autarchia, nelle principali tecnologie attraverso il piano "Standards 2035", con cui la Cina mira a fissare gli standard internazionali per le tecnologie di prossima generazione. Se fino a questo momento tali standard sono stati stabiliti da comitati tecnico-scientifici o a livello privato, la Cina intende per la prima volta promuovere un modello statale di definizione degli standard, e così settare le “regole del gioco” su 5G, Intelligenza Artificiale, Cloud Computing, Internet of Things e così via. I massicci investimenti in Ricerca e Sviluppo in ambito Hi-tech alimenteranno dunque il già crescente trend che vede la Cina staccare pesantemente tutte le altre potenze mondiali per numero di brevetti presentati alla World Intellectual Property Organization (WIPO).

Tuttavia, il tanto ventilato decoupling, ovvero il “disaccoppiamento” dell’economia cinese da quella americana tanto desiderata da Trump, che ha auspicato il rientro in patria delle imprese che hanno investito nel Paese asiatico, appare ancora piuttosto lontano, ed oltretutto, come sottolineato anche dal vice direttore dell’Ufficio della Commissione delle Finanze del Comitato Centrale cinese, Han Wenxiu, dal momento che Cina e Usa sono le due maggiori economie del mondo ed i loro legami economici sono determinati dalla complementarità delle loro strutture economiche e dall’apertura dell’economia globale, il disaccoppiamento completo, oltre ad essere irrealistico, non porterebbe alcun beneficio a nessuna delle due nazioni né al mondo intero.

In effetti, la pandemia ha dimostrato che pressoché tutti i Paesi appaiono molto dipendenti dalla Cina che è un fornitore irrinunciabile di moltissime merci strategiche - dalle forniture per la sanità sino alle terre rare - per le imprese e i mercati esteri, grazie alla vastità, efficienza, affidabilità delle reti logistiche e dei fornitori, ad un imbattibile rapporto prezzo-prestazioni, a delle infrastrutture molto moderne e ad una forza lavoro istruita ed efficiente.

Le sole imprese statunitensi stabilite nel Paese vi vendono per più di 500 miliardi di dollari all’anno e lasciare il Paese comporterebbe sicuramente rilevanti danni al loro business.

In tale quadro si può pensare che il decoupling, se mai si svilupperà, lo farà in misura relativamente limitata, in gran parte nei settori meno sviluppati.

In ogni caso, dopo lo scoppio del virus, l’economia del Paese asiatico sembra uscire rafforzata nella sua competizione con gli Stati Uniti. Ma per andare avanti in maniera adeguata essa dovrà sormontare diversi ostacoli: oltre che porre attenzione alla lotta con gli Stati Uniti, bisogna tenere sotto controllo il livello del debito, spingere sui consumi riducendo le diseguaglianze interne, portare avanti le politiche di risparmio energetico, avanzare sul fronte tecnologico, aumentare l’efficienza delle imprese pubbliche. Un programma indubbiamente molto impegnativo, ma certamente alla portata di Pechino.

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